Parlare ed esprimersi verbalmente con i nostri simili non è proprio una passeggiata; abbiamo già avuto modo di comprendere quanto questa attività sia complessa e richieda al cervello una quantità di sforzo notevole per poter essere completata ogni volta che avvertiamo la necessità, voglia o istinto di comunicare a parole con qualche altro individuo. Vedendo il cervello come il più potente dei processori esistenti al mondo, tuttavia, non è questo il processo che richiede maggiori risorse alla nostra CPU. Scrivere e leggere sono attività di gran lunga più faticose e articolate rispetto alla mera capacità – se così vogliamo definirla – di saper parlare.

Non sarà un caso che si impara prima a parlare, poi a scrivere e a leggere. Un essere umano impiega generalmente i primi 5 anni della propria vita a imparare a riprodurre le parole sentite da amici e familiari, prima meccanicamente, poi logicamente e con cognizione di causa, per articolare discorsi di senso più o meno compiuto e sviluppare le proprie capacità di linguaggio. Il vero “salto linguistico”; però, si verifica solo quando proviamo a cimentarci con la prima prova comunicativa più grande per noi: decifrare e riprodurre segni più comunemente noti come “lettere” e creare associazioni di lettere per ricostruire graficamente le parole che intendiamo comunicare o interpretarne il significato.

Ma cosa significa, esattamente, saper leggere e scrivere? Prima di tutto, è necessario capire come scrittura e lettura non siano capacità identiche, ma complementari, e che per questa ragione sono di norma associate alla stessa “macro-capacità” linguistica. Infatti, non è facile comprendere quale delle due facoltà inizi a funzionare prima nel nostro cervello. Il dilemma è simile a quello de “è nato prima l’uovo o la gallina?” in cui non è possibile stabilire logicamente quale dei due elementi abbia generato l’altro; la capacità di scrittura, infatti, consiste nel saper tracciare graficamente un segno associato a un certo suono e a uno specifico significato, mentre la capacità di lettura richiede alla nostra mente di riconoscere e interpretare quegli stessi segni sulla base di uno stesso codice di decodifica. Quale dei due processi si attivi prima non è dato sapere. Dipende da ciascuno di noi. Sicuramente, lo sforzo più grande che si chiede al nostro cervello è quello di imparare ad associare significati e suoni ad ogni cosa, sia essa parola verbale, segno grafico o oggetto presente nella realtà.

In pratica, sin dal primo momento in cui iniziamo a scrivere, la nostra mente è costretta a creare delle specifiche funzioni cerebrali destinate allo sviluppo del linguaggio. Vediamo come. Innanzitutto, è necessario che l’individuo che si appresta a imparare a scrivere sappia già parlare. Dopo i primi 5/6 anni di vita sociale l’essere umano è ritenuto in grado di poter apprendere la capacità di lettura e scrittura in modo da poterla sviluppare negli anni fino al raggiungimento dell’età adulta. A tal proposito, il primo passo da compiere è quello di insegnare a riconoscere la forma grafica, o grafema, comunemente utilizzata nella comunicazione scritta della nostra lingua.  Ad esempio, il segno grafico della lettera dell’alfabeto latino “A”, deve essere facilmente decodificabile e riproducibile: il segno consta di 2 segni obliqui che convergono in un vertice sulla parte superiore del glifo (o segno grafico) e di un terzo segno orizzontale che si inserisce tra le due linee.

Una volta imparato a distinguere e riprodurre la forma grafica, a questa andrà associato un suono ben distinto o fonema, proprio della lingua parlata: come qualcuno di voi avrà già intuito, la scrittura non è altro che il processo di rappresentazione grafica dell’aspetto fonetico (i suoni) della lingua parlata. La grammatica, il lessico e la struttura della frase, infatti, non sono affatto derivate dalla scrittura, che si limita unicamente a fissare su supporto materiale il pensiero linguistico del parlante. Similmente alle altre capacità possedute dall’uomo (tipo saper andare in bicicletta e, perché no, parlare) anche quelle di scrittura e lettura risultano irreversibili. Ecco perché, probabilmente, non riuscirete a ricordare lo sforzo che avete impiegato da bambini quando, alle elementari, vi veniva imposto di scrivere più e più volte lo stesso segno o lettera, per acquisirne piena padronanza di riproduzione grafica nelle sue diverse forme. Il nostro sistema di scrittura (o alfabeto latino), infatti, presenta la versione maiuscola e minuscola di tutte le lettere del suo alfabeto, a cui si aggiungono poi le varianti personali che ritroviamo nelle forme del corsivo e della scrittura a mano.

L’italiano e la maggior parte delle lingue più diffuse al mondo si serve di sistemi di scrittura cosiddetti “alfabetici“, mentre altre lingue come ad esempio il giapponese o il cinese, utilizzano gli ideogrammi. La differenza tra questi due sistemi di scrittura non sta solo nella diversa grafia – che potremo comunque riscontrare anche con l’alfabeto cirillico utilizzato dal russo e da parte delle lingue slave – ma dalla diversa concezione linguistica che sottende la creazione del sistema di scrittura stesso. Se, infatti, per noi imparare a scrivere significa riconoscere il grafema A e associarlo al rispettivo suono, per i nostri cugini asiatici scrivere significa imparare a memoria tutti i segni del proprio sistema di scrittura. Ogni ideogramma corrisponde a un significato, mentre le nostre lettere trascrivono i singoli suoni associati alla grafia. Proviamo a fare un esempio: se pensiamo al cane, sappiamo che per poter scrivere questa parola abbiamo bisogno di unire le lettere c-a-n-e, a cui associamo un rispettivo suono, e che combiniamo nella pronuncia finale. I giapponesi o i cinesi, invece, dovranno trascrivere il rispettivo ideogramma (o simbolo) 犬. Quindi, mentre l’alfabeto consente di assemblare gli “atomi” linguistici per creare una parola, nelle lingue che utilizzato gli ideogrammi non sarà in alcun modo possibile scrivere la parola “cane” se non si conosce il relativo segno grafico. In altre parole, l’alfabeto è il sistema di scrittura attualmente più evoluto e complesso a livello mondiale. Difficile da concepire, ma estremamente facile da usare. Chiaramente, infatti, è più semplice imparare 21 lettere e usarle a nostro piacimento come note musicali per articolare il discorso piuttosto che dover imparare a memoria migliaia di ideogrammi.

Tuttavia, il nostro sistema di scrittura richiede un ulteriore sforzo al neo-alfabeta: dopo aver imparato a distinguere e a pronunciare i segni grafici presenti nell’alfabeto, il parlante dovrà imparare una serie di regole di pronuncia che consentiranno di adattare le varie combinazioni di segni per poter pronunciare correttamente la parola scritta. Per fare un esempio, in italiano l’acca è una lettera necessaria anche se è sempre muta: la parola chiesa, infatti, se fosse scritta senz’acca, verrebbe pronunciata non con la c di cane, ma con quella di cielo. Mettendo a confronto diverse lingue che utilizzano l’alfabeto latino gli esempi aumentano copiosamente; prendiamo la parola italiana “gnomo” e il corrispettivo inglese “gnome”. Pur se scritte in modo simile queste parole si pronunciano in modo diverso dato che le regole di pronuncia della scrittura divergono nonostante il comune sistema in uso. Mentre in italiano esiste il suono “ɲ”, trascritto con i grafemi “gn”, l’inglese è sprovvisto di questo suono ed è costretto a pronunciare la stessa combinazione come due lettere distinte. Pertanto, mentre in italiano la pronuncia della parola “gnomo” è ɲomo, in inglese la stessa parola verrà pronunciata “ghnom”.

Al di là delle regole di pronuncia associate alla grafia dei sistemi di scrittura, il vero problema sta nel fatto che la scrittura non si limita a trascrivere i suoni di ciascuna lingua ma è altresì capace di fondere in ciascun segno quelli che De Saussure chiamava “significato” e “significante“. Il primo non ha bisogno di spiegazioni: se scriviamo “cane” sappiamo che utilizzando quella parola stiamo parlando dell’omonimo animale domestico. D’altra parte il significante è la proiezione della parola fatta di suoni e lettere, ossia l’immagine che visualizziamo nella mente quando pensiamo di scrivere quella stessa parola. Vediamo di fare degli esempi.

In italiano la parola cane può avere lo stesso significante “c-a-n-e”, ma assumere diversi significati: il cane può infatti essere un animale o una persona crudele o incapace. Similmente, in inglese, il significato di cane come animale ha un diverso significante: d-o-g. In altre parole, nella stessa lingua una parola può assumere diverse sfumature di significato, mentre lo stesso significato ha significanti diversi nelle lingue straniere, dato che il rispettivo lessico non coincide con quello della propria lingua madre. Questa è una delle maggiori difficoltà dell’apprendimento di una qualsiasi lingua straniera. Non a caso, infatti, la difficoltà aumenta quando il sistema di scrittura diverge quasi totalmente da quello a cui siamo abituati; per noi italiani, che scriviamo utilizzando l’alfabeto latino, è più semplice imparare il russo, scritto sempre con un sistema alfabetico, mentre è più difficile apprendere il giapponese, che ci richiede l’ulteriore fatica di “imparare a scrivere in un modo completamente diverso”. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che il processo di apprendimento di una qualsiasi lingua straniera passa sempre per la scrittura. I romani lo sapevano bene: il proverbio “verba volant, scripta manent” è la migliore sintesi di quello che succede quando ci si appresta a imparare una lingua (straniera). Per questo è importante leggere e scrivere: più parole vedete scritte, più ve ne rimarranno in mente; più frequentemente siete costretti a scrivere in una lingua straniera, maggiore probabilità avrete di apprenderla nel modo più appropriato. Il parlato, poi, si svilupperà con l’uso verbale.

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