Ricordo ancora molto bene il giorno in cui (ormai tanti anni fa) sono entrata per la prima volta su internet. All’epoca l’e-commerce, i social network e le ricerche su Google non erano neanche nell’anticamera del cervello, ma il mio mondo stava comunque per cambiare radicalmente. Credo che sia impossibile descrivere alla nuova “generazione cablata” quella stupefacente sensazione di trasgressione e inarrestabile assuefazione legata alla scoperta della chat e dell’email con cui per la prima volta, io come altri miei coetanei, potevamo permetterci il lusso di comunicare liberamente con amici e conoscenti a qualsiasi ora del giorno e della notte, nella privacy della propria camera e senza dover per forza essere ascoltati da genitori, fratelli o persone ficcanaso. La rivoluzione comunicativa era appena iniziata e in pochi se ne erano resi conto. Sì, perché ancora comunicare era una prerogativa umana, fatta di legami e contesti ben specifici.

Ricercando la parola comunicazione sul dizionario troveremo una semplice definizione che spiega come, dal significato latino di “mettere in comune”, il termine abbia assunto pian piano il valore di “far partecipi gli altri di qualcosa”. Su questo esistono pochi dubbi; sappiamo tutti benissimo cosa fare per comunicare con qualcuno. Ma cosa significa, esattamente, comunicare?

Al di là della teoria aristotelica che vede l’uomo come animale sociale, la prima verità sulla comunicazione è che è impossibile per qualsiasi essere vivente animato non comunicare con gli altri. Questo perché la comunicazione non è semplicemente parlare ma presuppone necessariamente una relazione e quindi uno scambio tra individui di informazioni di varia natura. Non è infatti possibile evitare di comunicare o di subire una comunicazione: come tante particelle subatomiche siamo tutti destinati a incontrarci e scontrarci, creando di volta in volta un’interazione unica il cui risultato altera inevitabilmente la nostra condizione o situazione precedente. Volendo fare un esempio, sarà capitato a tutti di tornare a casa sereni e rilassati e, una volta varcata la soglia di casa, trovare una faccia triste o arrabbiata che in qualche modo interrompe, pur se per un breve momento, quello stato di serenità. Allo stesso modo, quando si cammina per strada, può capitare di incrociare lo sguardo di uno sconosciuto e di chiedersi che tipo di persona sia.

Tutto questo avviene senza bisogno di proferir parola alcuna. La comunicazione, infatti, non è solamente linguaggio verbale ma l’unico strumento in nostro possesso per interagire con la realtà che ci circonda, ambiente compreso, in un sistema che potremo definire circolare e aperto. Analizzando più dettagliatamente la “meccanica” comunicativa, l’intrinsecità interattiva della comunicazione appare in fondo subito evidente.

Il primo requisito di un qualsiasi tipo di comunicazione sta infatti nei due componenti fondamentali: l’emittente, la persona che avvia la comunicazione attraverso un messaggio, e il ricevente, che a sua volta accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende. Per completare il quadro comunicativo sarà quindi necessario aggiungere i seguenti componenti:

Codice

Utilizzato ugualmente da emittente e ricevente, corrisponde al codice di codifica-decodifica del messaggio; in altre parole il codice non è altro che la lingua impiegata per “formare” il messaggio. Può essere analogico, se per comunicare si utilizzano delle immagini, o numerico, se invece la comunicazione avviene attraverso il linguaggio verbale (ossia la parola vera e propria).

Canale

Mezzo di propagazione fisica del codice (onde sonore, scrittura, ecc). I cinque sensi, soprattutto vista e udito rappresentano i cinque canali fondamentali di comunicazione.

Messaggio

Contenuto da comunicare (es.: “sto mangiando”).

Contesto

L'”ambiente” significativo all’interno del quale si situa l’atto comunicativo quali, ad esempio, l’ambiente lavorativo piuttosto che quello familiare o una situazione formale rispetto a una informale. Allo stesso modo nel contesto rientrano anche situazioni emotive.

Referente

L’oggetto della comunicazione a cui il messaggio si riferisce e che in qualche modo dà sostanza al contenuto del messaggio stesso (ad esempio “sto mangiando!” può aggiungere al messaggio originale il significato di gioia per il fatto di poter mangiare o rabbia per l’essere stati disturbati durante il pasto).

Feedback

La risposta, volontaria o involontaria, che l’emittente riceve dal ricevente.

Volendo riepilogare, ecco un breve schema dell’atto comunicativo.

La domanda che ora sorge spontanea, quindi, è: come comunicano le persone? L’essere umano è senza ombra di dubbio l’animale che più beneficia della capacità comunicativa essendo in grado di sfruttare diverse tipologie di comunicazione.

La prima è la cosiddetta comunicazione sociale o di massa, che utilizza un linguaggio standard per trasferire informazioni, e che, essendo a direzione unico, costituisce un sistema chiuso. La comunicazione per antonomasia è però quella interpersonale, che invece coinvolge più individui in un sistema circolare e aperto ed è basata su una relazione in cui gli interlocutori si influenzano vicendevolmente come in un circolo vizioso sfruttando tre tipi di codice o linguaggio:

  • Linguaggio verbale, tipicamente umano, che avviene attraverso l’uso della lingua, sia scritta che orale, e che dipende da precise regole sintattiche e grammaticali che inevitabilmente compromettono l’efficacia comunicativa tra lingue e dialetti diversi;

  • Linguaggio non verbale o del corpo, che avviene attraverso mimiche facciali, sguardi, gesti, posture, come ad esempio toccarsi il mento per mostrare una certa riflessione sull’argomento di cui si sta parlando, o tirare il busto in avanti quando siamo interessati a ciò che stiamo ascoltando fino a mordicchiarsi le labbra quando la cosa ci interessa ma siamo consapevoli di non poterla fare;

  • Linguaggio para verbale, che riguarda il tono, il volume e il ritmo della voce ma anche le pause e altre espressioni sonore come schiarirsi la voce o giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano.

È importante sottolineare che per esserci comunicazione, oltre al linguaggio, tutti gli altri elementi devono essere presenti, nessuno escluso. Il processo comunicativo, infatti, è una delle cose più complesse che esistano in natura e la presenza contemporanea dei sei elementi non garantisce sempre una comunicazione efficace.

La presenza del ricevente, il linguaggio condiviso e il contesto familiare, infatti, non bastano a garantire la totale comprensione del messaggio. Nello specifico, la relazione personale esistente tra due o più interlocutori può compromettere notevolmente l’efficacia comunicativa dal momento che questa si manifesta normalmente con una distanza fisica pressoché standard. Fateci caso: quando la relazione col nostro interlocutore è intima (familiari, partner, ecc.) la distanza da esso è inferiore ai 50 cm; la distanza aumenta proporzionalmente fino ad arrivare a 3,5 metri a seconda che si comunichi con amici (distanza personale), conoscenti (distanza sociale) o sconosciuti (distanza pubblica). Ecco perché è più facile “farsi capire” dalle persone che vivono in casa con noi che dal nostro capo al lavoro, ed ecco perché i timidi parlano sempre da lontano mentre i più eccentrici tendono ad avvicinarsi a distanze “pericolosissime” quando devono dire magari aggiungendo alla parola anche qualche tipo di contatto fisico (abbraccio, mano appoggiata sulla spalla, ecc.) che, vuoi o non vuoi, lascia intendere il notevole grado di confidenza il proprio interlocutore.

E al telefono che succede, direte voi? A tal proposito è interessante notare come il tipo di relazione non sia più espresso dalla distanza fisica ma dal registro linguistico utilizzato durante la comunicazione. La cosa vale sia al telefono che su internet; per quanto il contesto sia sempre meno formale rispetto alla comunicazione “a quattr’occhi”, se si conosce bene la persona sia al telefono che per email possiamo concederci di parlare la lingua con cui pensiamo, mentre di norma alziamo il tono della conversazione o di quello che stiamo scrivendo avvicinandoci il più possibile alle formule e agli standard della lingua istituzionale. Un esempio? Quando si risponde al telefono a un caro amico o a un familiare siamo tutti liberi di parlare in dialetto utilizzando diminutivi, dispregiativi o vezzeggiativi, cosa che non faremo mai (almeno non tutti) rispondendo al telefono del nostro ufficio, in cui ci viene richiesto un linguaggio formale più o meno serrato. Anche in questo caso, ovviamente, è possibile “avvicinarsi” o “allontanarsi” dal proprio interlocutore intervallando i due tipi di linguaggio. Se volete essere amichevoli con un cliente potete infatti sfumare il classico “Lei” con espressioni neutre (es. sostituire un “Lei come sta?” con “Come andiamo?”), mentre è abitudine comune “prepararsi un discorso” quando bisogna comunicare notizie spiacevoli ad amici, partner e familiari.

Tutto questo riguarda interlocutori che parlano la stessa lingua e condividono bene o male la stessa cultura. Riuscite a immaginare quanto sia difficile comunicare in modo efficace con persone di culture e lingue diverse dalla vostra? A quanto pare la distanza in cui ci si sente a proprio agio con le altre persone dipende proprio da questo: oltre a miliardi di differenze nella quotidianità e nelle tradizioni, ogni cultura ha infatti diverse concezioni di vicinanza. Gli arabi preferiscono stare molto vicini tra loro, quasi gomito a gomito, gli europei e gli asiatici si tengono invece fuori dal raggio di azione del braccio. In alcune regioni meridionali dell’India, dove la distanza che gli appartenenti alle diverse caste devono mantenere fra di loro è rigidamente stabilita, quando gli individui della casta più bassa (paria) incontrano i bramini, la casta più elevata, devono tenersi rigorosamente a una distanza di 39 metri (che ovviamente impedisce la comunicazione!). Altra differenza è quella tra i sessi: normalmente gli uomini si trovano più a loro agio a lato di una persona, mentre le donne preferiscono stare sempre di fronte. L’età, a sua volta, fa differenza: I bambini a loro volta cercano sempre un contatto fisico quando devono comunicare qualcosa di importante con gli adulti che, invece, tra di loro evitano il contatto fisico. In ogni cultura, comunque, vale sempre lo stesso principio: patti (e comunicazione) chiari, amicizia lunga.

Forse vi sarete resi conto che comunicare in modo efficace non è una cosa da tutti e che non basta saper parlare. I grandi comunicatori nascono con la capacità innata di utilizzare tutti e sei i componenti per comprendere ed essere capiti al meglio; il loro è un dono che normalmente sanno mettere a frutto in tempi rapidi. Chi non nasce così fortunato può comunque provare a cimentarsi in questa pratica così articolata e complessa che richiede necessariamente di mettersi a confronto, oltre che con gli altri, anche con se stessi. In fondo comunicare non è una semplice facoltà mentale, ma una condizione essenziale della vita e dello stato di benessere di ogni essere vivente perché contribuisce a creare il senso di identità della persona permettendole di trasmettere informazioni di varia natura a più individui che rimandano una risposta. In altre parole, se è vero che siamo animali sociali è perché la comunicazione verbale ci rende umani, ma per esserlo non basta limitarsi a “recepire il messaggio”; bisogna anche rispondere con una buona dose di pratica. Questa, forse, è la ricetta per l’unico elisir di lunga vita. E…non preoccupatevi dei primi risultati: è sbagliando che s’impara!

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